Il folklore
Il folklore e soprattutto la musica e i canti sono aspetti essenziali di ogni tipo di cultura e vita aggregata. La tradizione folkloristica dei randaragnani è ricchissima di stornelli, cante e filastrocche ed occorre riscoprirla perchè non vada perduta per sempre nelle sue caratteristiche primitive.
Gli strumenti musicali , che servivano per accompagnare i canti,gli stornelli ed i cantamaggi erano il mandolino, la fisarmonica e la chitarra.
I falò e le fiaccolate
I falò venivano fatti due volte l’ anno,per l’ Ascensione e la vigilia di Natale; il primo significava la salita di Cristo al cielo e quello di Natale era per far luce al Bambino che nasceva. Venivano preparati fuori dai borghi con la legna raccolta nei boschi, tagliata ed ammucchiata a cataste. Erano suggestivi e significativi dello spirito religioso dei montanari , si vedevano da lontano e segnalavano a tutti i più lontani paesi dei crinali circostanti che i valligiani erano vivi e vegeti e si univano nello spirito a tutti gli altri abitanti, per celebrare le festività religiose.
Per la vigilia di Natale si effettuava la fiaccolata.La fiaccola era il simbolo del singolo valligiano, che partecipava attivamente all’ avvenimento del Natale, facendo luce al bambino che nasceva e la fiaccolata l’ espressione comunitaria di partecipazione alla veglia di tutti i borghi della valle.
Veniva preparata nei giorni precedenti la vigilia di Natale, ma anche prima, fin dalla castgnidura. I grossi tronchi venivano intagliati e lavorati con accetta e zeppe di acciaio .
Quindi venivano fatte seccare nei canicci. In tutte le famiglie vi erano almeno una o due fiaccole, e la sera della vigilia ogni famiglia le sistemava vicino a casa e nei luoghi più in vista, piantandole a terra.Venivano accese, dando fuoco a un pù di paglia inserita dentro la parte alta della fiaccola e duravano anche 4-5 ore a seconda della grandezza.
Canzoni, stornelli, passade
Ai figli non era permesso cantare motivi che non fossero di chiesa, ma chi obbediva a questi divieti?Tutti cantavano stornelli e canzoni,anche licenziosi, inventati da cantautori locali,improvvisati o riecheggianti arie, ritmi e motivi nazionali. Il repertorio della valle è vastissimo.
L’ invenzione e l’ improvvisazione,talora fatta per “scroccare”anche una sola bevuta all’ osteria,si rifaceva a episodi legati alle persone e ai posti della valle o ad accadimenti nazionali e fatti di cronaca, oppure alle vicissitudini esistenziali del momento. Si cantavano e si cantano tuttora le storie d’ amore degli abitanti, singole imprese e fatti particolari, ormai passati sulla bocca di tutti.Nei canicci si cantava anche fino al mattino, di un pò di tutto e gli inventori erano tanti, giovani soprattutto che avevano un loro soprannome. Dai vari angoli, a botta e risposta e a turno, venivano cantati stornelli a non finire. Si parlava, si cantava, si rideva insieme, all’ antica insomma, come si dice oggi.
L’ “intellettuale” del paese,come la levatrice e qualche altro che leggeva i giornali o faceva vita politica, raccontava cosa accadeva nel mondo, gli altri quello che succedeva nella valle.
Tutti conoscono la canzone del carbonaio, incisa su disco da Caterina Boeno.Fu inventata dai toscani, che emigravano in sardegna come taglialegna e carbonai. Il testo ci è stato cantato anche da vecchi carbonai della valle del Randaragna e si differenzia in diverse parte:
Vita tremenda, vita tribolata!
Chi nella macchia va per lavorare,
non può l’ aver ne spasimo e dolore,
come la vita del carbonaio e il tagliatore.
Parton da casa sua tutti lieti al cuore,
assieme,con diversi compagni.
Lascian la moglie e i figli nel dolore,
i figli scalzi, ignudi come ragni,
dicendole:”se giova ai miei sudori,
ho l’ intenzion di far buon guadagni.
Pel conto vi dirò, poi lo vedrete.
Comprerete il vestito e mangerete”.
E l’ intenzion lo vuol – com’intendete –
perchè il padron fa buoni promissioni.
Vanno per tutto – come ben sapete –
secondo le combinazioni.
E in Corsica o in Sardegna fino a Riete
andrebbero a favor dei suoi padroni.
Con la speranza e la maggior fortuna
andati sarebbero al mondo della luna.
E giunti che son là ad una selva oscura,
d’ ogni parte alcuna forman la cella per il suo demoro.
Ela fabbrican di terra,legna e sassi,
che rissembra il ricovero dei tassi.
Le porte fan di rame e d’ altri addrassi
e il letto fan di rame del più fino.
Bisogna otto mesi coricarsi
e nutrirsi del cibo più meschino.
Polenta e cacio. Non si diventa grassi.
Per risparmiar se ne mangia anche il pochino.
Si dorme, dove, sotto quelle zolle
col capo in terra come le cipolle.
Ci danno la farina a caro prezzo.
Cinquanta lire si paga al quintale.
Puzza di rifinito e sa di lezzo,
che sembra roba da darla al maiale.
Poi un’ altra estrazion, che il cor mi desta,
chi in otto mesi non si spoglian mai.
Dormendo non si copre mai la testa
con la paura di trovar de’ guai.
E tiene il fuoco acceso là in foresta.
Andar, venire, è tutto un via vai.
Tra le visite del lavoro e le cacciate
passan senza dormir molte nottate.
Mi strappano serie fatiche, mi vojan rate!
E dormo e canterà come un guerrier!
Fra padroni, capimacchie e dispensieri
son quelli che ci metton cifre e zeri.
E hanno un bel da dire “non hai lavorato.
Che se di più tu lavoravi
e certamente più tu guadagnavi!”
E quà depongo la penna e il calamaio.
Sono Venturi Olinto il carbonaio.